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Cercasi impresa a misura di crescita

di Orazio Carabini

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28 novembre 2009

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Qualcuno rimpiange l'impresa pubblica come fucina di classe dirigente nell'epoca dei grandi progetti: la siderurgia, l'Autostrada del Sole. Prima che Iri ed Eni degenerassero tra debiti e clientelismo e si trasformassero in una palla al piede per il paese (fino alla "rottura" del 1992 con l'epilogo di Tangentopoli), venivano da lì sfide impegnative.
«Dappertutto hanno capito – dice un autorevole manager – che il settore dell'automobile va protetto perché ha forti ricadute sull'intera economia. Da noi no. I piccoli e medi imprenditori sostengono che la gente non compra i loro prodotti perché compra la macchina nuova approfittando degli incentivi alla rottamazione». E questo è uno dei punti dolenti da sempre: la Fiat come maggior beneficiario delle politiche di sostegno pubblico non piace alla piccola e media impresa, non sussidiata e costretta ad arrangiarsi da sola.
Così come a molti non è gradita l'alleanza, considerata innaturale, con le imprese pubbliche fornitrici di energia: l'Eni e l'Enel, con la Finmeccanica, le Poste, le Ferrovie, sono viste come controparti che non riescono a far pagare meno il gas e l'elettricità, non come compagni di viaggio nella quotidiana lotta su mercati concorrenziali. «L'Italia è un paese seduto, sazio – sintetizza Franco Caltagirone, leader dell'omonimo gruppo –. E sono preoccupato perché rischiamo di perdere anche due importanti centri decisionali come Alitalia e Telecom. Il fatto che non ci sia più la grande impresa è grave, soprattutto perché viene meno la capacità di formare classe dirigente». «E il salotto buono – aggiunge un grande imprenditore – non c'è più perché era troppo conservatore. Chiuso nella sua torre d'avorio, non ha saputo rinnovarsi, non ha cooptato nessuno, fino a sgretolarsi. E non si è creato nemmeno un altro polo. Oggi gli imprenditori che sono alla testa dei gruppi più forti, come Del Vecchio, Benetton, Ferrero, Caltagirone guardano all'estero o si muovono in proprio. Non c'è una stanza di compensazione. Ci hanno provato le banche, ma non possono fare sistema da sole».

È sintomatico anche l'atteggiamento della Fiat di Sergio Marchionne, sempre più "baricentrata" sull'estero, soprattutto dopo l'acquisizione della Chrysler. «Se Marchionne – osserva un imprenditore – deve far sapere che ha 500 milioni di credito verso lo stato, fa un comunicato. Cesare Romiti, con il fido Umberto Belliazzi, faceva il giro delle sette chiese a Roma». Anche nei negoziati con il governo, il metodo Marchionne è diverso da quello della generazione precedente. È molto più diretto nel porre la questione: «Volete che lo stabilimento di Termini resti in funzione? Metteteci i soldi». Insomma una Fiat quasi "svizzera", come Marchionne. E una Exor, erede dell'Ifil e scrigno della famiglia Agnelli, sempre più internazionale.
«La verità – conferma un altro autorevole imprenditore – è che non esiste più un establishment. Prima c'era quello che si riconosceva in Gianni Agnelli. Secondo me, era abbastanza "virtuale", nel senso che la percezione del suo potere era superiore a quello effettivo. Però c'era. I Del Vecchio, i Ferrero vivono in solitudine in Italia e sono proiettati sull'estero, a nessuno di loro interessa predisporsi a diventare leader».

In cerca di credito
Restano le piccole e le microimprese, con un handicap drammatico di sottocapitalizzazione che viene fuori in modo prepotente adesso che c'è la stretta creditizia. «Purtroppo questo problema esiste ed è grave – ammette Caltagirone –. Gli imprenditori ottenevano credito con grande facilità e non hanno investito nella loro impresa». «Negli ultimi anni – aggiunge un altro imprenditore – i nostri colleghi con imprese di piccole dimensioni hanno fatto finanza: s'indebitavano, distribuivano extra-dividendi e investivano in titoli e immobili. Così ci troviamo in questa strana situazione: le piccole sono sottocapitalizzate quando, semmai, dovrebbero esserlo le grandi». Quindi la "moratoria" concordata con le banche, cioè il rinvio della restituzione dei prestiti delle imprese in difficoltà, non basta se non s'interviene sul capitale. Perché le banche non possono fare nuovi prestiti a fronte di perdite.
«La frammentazione della rappresentanza – aggiunge Enrico Letta, vicesegretario del Pd – è un problema». Che rischia di accentuare le divisioni e i conflitti, indebolendo il potere contrattuale delle imprese. «È un sistema fragile – osserva un analista – che ha bisogno di sommerso e di aiuti pubblici per funzionare. Tutto va bene finché la congiuntura tira, ma quando servono capitali, tecnologia, management fatica a tirare avanti».
A questa visione pessimistica se ne contrappone una di segno opposto che fa leva sul dinamismo e sulla flessibilità delle piccole e medie imprese. «Il sistema – commenta il ministro del Welfare Maurizio Sacconi – aveva già avviato un percorso di riposizionamento. E c'è la consapevolezza, anche nei produttori di nicchia, che bisogna raggiungere dimensioni maggiori. Ma dobbiamo anche chiederci come mai imprese che sono considerate medio-piccole sono titolari di marchi leader nel mondo. Esiste una manifattura globalizzata che è capace di interpretare i cambiamenti geopolitici e che si organizza con centrali terziarie, in grado di guidare finanza, produzione e distribuzione». «Si sta facendo pulizia e si stanno riorientando i processi produttivi – conferma Letta –. Alla fine la crisi potrebbe essere salutare e favorire una ristrutturazione come quella del 2001-04: l'emergenza mette pressione ed elimina le sacche d'inefficienza».
  CONTINUA ...»

28 novembre 2009
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